“Amanda Panezo è un’artista elegante, ironica e decisamente trendy. Io un gallerista semplice e decisamente outsider. Nel mio lavoro solo una regola: seguire il cuore, lavorando in grazia e virtù. Sono fortunato perché riesco a intercettare sempre i gusti del pubblico e dei collezionisti che mi seguono e si affidano alle mie proposte. Poi Amanda è anche molto Dandy, come non amarla? E per questo ho deciso di portarla a Padova”, spiega Giorgio Chinea Canale.
Corone, re, regine, donne di cuori e poi il sole fiammeggiante. Sono questi alcuni dei simboli raffigurati nelle opere dell’artista che, per il curatore e gallerista Giorgio Chinea, appartengono all’unica vera dinastia regale: quella della bellezza.
“Re e corone che anticipano l’incoronazione di Re Carlo III perché si sa: a noi Dandies piace giocare”, afferma sorridendo Giorgio Chinea Canale.
La mostra “Gloriae et Laetitiae” (Gloria e Letizia) si terrà fino al 6 giugno 2023 nella Galleria Giorgio Chinea Art Cabinet, a Padova.
“Amanda Panezo è italo ecuadoriana, arriva a Padova da Milano e porta in città un mondo di icone tra il cult e il glam nel solco di quella che è la mia ricerca”, spiega Chinea Canale.
Amanda è un’artista visiva, lei stessa si definisce simbolista e surrealista. Le corone, simbolo di potere, nelle sue tele diventano poderose immagini eleganti.
“Tre modelli, uomo e donna ambivalenti: Altea, Augusta e Sabrina i tre moduli, declinati su molteplici fondali monocromi dalle tonalità squillanti, si elevano a immagini POP in un battibaleno – commenta il gallerista -. Suo è anche il tema del doppio, del Doppelganger, che ritroviamo nelle sue icastiche rivisitazioni delle carte da gioco marsigliesi, le sue Carte Danzanti. Olio su tela 70×50 cm (in mostra ce ne sono tre) dove, ad esempio, la Regina di Cuori diventa ‘Esigenza e Romanticismo’ e il suo Re ‘Convinzione e Dubbio’. Poi la serie di stampe autografe, comprese di Jolly e Jollina rispettivamente Il Dono e Il Ricevimento, racchiuse in bellissime cornici-scultura in plexiglass”.
In mostra anche la serie di opere Primavera di Sun Moritz, una produzione realizzata per l’anniversario dei 90 anni del logo del Comune di St. Moritz ed esposta insieme a tutte le altre sue stagioni al Grand Hotel des Bains Kempinski.
“Il Sole Sun Moritz è un gioco di parole: una metafora sul sole e sulla sua luce che deve sempre splendere in qualsiasi stagione”, spiega il gallerista
Giorgio Chinea è reduce da importanti traguardi. Lo abbiamo visto al Museo Rimoldi di Cortina confrontarsi con il paesaggio nell’arte attraverso i secoli, con la mostra “Dall’800 all’oggi”. Al MAMbo, a Bologna, dove un’artista della sua galleria, la performer Giovanna Ricotta, è entrata nella collezione permanente di uno dei musei più prestigiosi d’Italia.
La sua micro-galleria è punto di riferimento per i giovani collezionisti, e per gli artisti frutto del suo scouting legato al mondo del fumetto, sua altra grande passione. E riferimento del Pop, tema centrale dei suoi studi e della sua ricerca.
Tratto distintivo del curatore gallerista è l’eleganza, che anche quando è dirompente e sembra quasi scalzare il concetto in sé, propone sempre una riflessione estetica, come è stato con la mostrina del milanese “le Moschine” (pseudonimo di Paolo Deandrea illustratore e fumettista). Con l’iconoclasta artista trentina Laurina Paperina e con il romantico e ironico Gabriel Ortega maestro del Neo Pop internazionale che trasforma il fumetto in Arte.
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“A nome di tutta Arthemisia, sono davvero lieta del grande risultato ottenuto dalla mostra di Jago – afferma la Presidentessa Iole Siena -. Un progetto nato da un incontro quasi del tutto casuale con l’artista. Ho apprezzato fin da subito la sua capacità di artista ma anche di comunicatore, per la sua onestà e i suoi principi. È l’emblema dell’artista contemporaneo. Insieme all’instancabile e visionaria Maria Teresa Benedetti, curatrice della mostra, si è istaurato un feeling immediato che ci ha portato ad affrontare questa sfida, che oggi si conclude con un esito strabiliante. Senza mai aver paura, Arthemisia da sempre è alla ricerca di nuovi progetti da proporre al suo pubblico e la sola idea (peraltro confermata in questo caso) che l’arte possa giungere in maniera così forte ai giovanissimi non fa che renderci fieri di quel che facciamo. Amiamo l’arte e vogliamo che sempre più gente possa amarla: questa è la nostra missione”.
Sono state lunghissime le file che, questo fine settimana, hanno caratterizzato gli ultimi giorni di apertura della prima grande mostra dedicata a Jago e ospitata a Palazzo Bonaparte di Roma. Sono 140.382 i visitatori e gli appassionati del lavoro del giovane scultore italiano che, dallo scorso 12 marzo hanno contribuito al successo della mostra. Amato per il suo indiscusso talento creativo ma anche per la sua grande forza nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione, tra visite guidate, firma copie e incontri con l’artista, sono circa 80 mila i giovani under 35 catturati dall’inconfondibile stile di Jago. Anche migliaia le interazioni e condivisioni sui social network.
“Mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo – afferma Jago -. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione ma tratto temi fondamentali dell’epoca in cui vivo. Il legame col mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido”.
Scultore e comunicatore, Jago attraverso le sue opere fornisce al pubblico una lettura personale della storia, risignificandola e utilizzando un materiale nobile come il marmo, appartenente alla tradizione, e procedimenti esecutivi classici (dal disegno al modello, dal bozzetto d’argilla al calco in gesso), insieme all’adozione della figura umana come soggetto prevalente.
Nelle sue opere, utilizza anche elementi tragici in un costante gioco di rimandi, con una visione sempre tesa alle tematiche del presente, suscitando provocatoriamente negli spettatori riflessioni sullo status dei nostri tempi. Tra le varie opere esposte: l’opera giovanile “La pelle dentro” dove la capacità dell’arto di penetrare in maniera veemente all’interno della materia è in grado di enucleare una forma che lo rappresenti. Il lavorio incessante dell’acqua sul sasso diviene metafora dell’intervento creativo e la mano è emblematicamente assunta a strumento principe di ogni possibile realizzazione. È la mano dello scultore, strumento fondamentale per ogni operazione creativa. E poi ancora “Apparato Circolatorio”, la rappresentazione iconica del battito cardiaco in ognuna delle sue fasi dedicata a un amico scomparso. Un cuore continua a battere al di là della vita, nel pensiero di chi è stato amato.
Ma chi è Jago? Jago è lo Pseudonimo di Jacopo Cardillo, noto come “The Social Artist” per le innate capacità comunicative e il grande successo che riscuote sui social. Un talento nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione, Jago arriva direttamente al cuore del pubblico che lo ama, anzi lo adora. Paragonabile in tal senso a una rockstar, trasmette l’amore per l’arte ai giovani: le dirette streaming e le documentazioni foto e video (attraverso le quali coinvolge il suo pubblico sul web) raccontano il processo inventivo di ogni opera e il percorso condiviso consente una diretta partecipazione dei suoi followers al singolo passaggio esecutivo.

È un artista italiano che opera nel campo di scultura, grafica e produzione video. Nasce a Frosinone (Italia) nel 1987, dove ha frequentato il liceo artistico e poi l’Accademia di Belle Arti (lasciata nel 2010). Dal 2016, anno della sua prima mostra personale nella Capitale, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina e America. È stato professore ospite alla New York Academy of Art, dove ha tenuto una masterclass e diverse lezioni nel 2018. Ha ottenuto numerosi premi nazionali e internazionali: la Medaglia Pontificia (consegnatagli dal cardinale Ravasi in occasione del premio delle Pontificie Accademie nel 2010), il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e ha inoltre ricevuto l’investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc del 2017. All’età di 24 anni, su presentazione di Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI (2009) che gli è valso la suddetta Medaglia Pontificia. La scultura giovanile è stata poi rielaborata nel 2016, prendendo il nome di Habemus Homineme divenendo uno dei suoi lavori più noti. L’avvenuta spoliazione del Papa emerito dai suoi paramenti è stata esposta a Roma, nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, attirando un numero record di visitatori (più di 3.500 durante l’inaugurazione). A seguito di un’esposizione all’Armory Show di Manhattan, Jago si trasferisce a New York. Qui inizia la realizzazione del Figlio Velato, esposto permanentemente all’interno della Cappella dei Bianchi nella Chiesa di San Severo Fuori le Mura a Napoli. L’opera è ispirata al settecentesco Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, collocato nel Museo Cappella San Severo sempre a Napoli. La ricerca artistica di Jago fonda le sue radici nelle tecniche tradizionali e instaura un rapporto diretto con il pubblico mediante l’utilizzo di video e dei social network, per condividere il processo produttivo. Nel 2019, in occasione della missione Beyond dell’ESA (European Space Agency) è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale. Intitolata “The First Baby” e raffigurante il feto di un neonato, è tornata sulla Terra a febbraio 2020 sotto la custodia del capo missione, Luca Parmitano. Da maggio 2020 Jago risiede a Napoli avendo eletto il suo studio nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi. All’inizio di novembre realizza l’installazione “Look Downall” temporaneamente collocata in Piazza del Plebiscito (ora nel deserto di Al Haniyah a Fujairah), mentre giorno 1 ottobre 2021 installa l’opera “Pietà” nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.
La mostra “JAGO. The Exhibition” è stata prodotta e organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studio e curata da Maria Teresa Benedetti. L’evento è stato consigliato da Sky Arte.
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Il 23 aprile si è alzato il sipario sulla 59a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia che proseguirà fino al 27 novembre 2022. L’esposizione si celebra in un anno pari a causa dello spostamento della Biennale dell’architettura che è stata spostata dal 2020 al 2021 e che ha quindi finito col creare l’effetto domino. Ed è anche la prima edizione curata da una donna italiana: Cecilia Alemani. “Come prima donna italiana a rivestire questa posizione, mi riprometto di dare voce ad artiste e artisti per realizzare progetti unici che riflettano le loro visioni e la nostra società”, aveva dichiarato Alemani.
Cecilia Alemani è una curatrice con all’attivo numerose mostre su artisti contemporanei, responsabile e capo curatore di High Line Art, programma di arte pubblica della High Line, il parco urbano sopraelevato di New York, e alla direzione del Padiglione Italia alla Biennale Arte 2017. La curatrice milanese ha subito dato un’impronta fortemente di genere alla “sua” Biennale: su 213 presenze provenienti da 58 paesi (26 sono italiani), 191 sono artiste e 22 artisti; per 180 si tratta della prima volta in Laguna e sono ospitate oltre 1400 tra opere e istallazioni. La Mostra è affiancata da 80 partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni, ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia. Cinque i Paesi presenti per la prima volta alla Biennale Arte: Repubblica del Camerun, Namibia, Nepal, Sultanato dell’Oman e Uganda. La Repubblica del Kazakhstan, la Repubblica del Kyrgyzstan e la Repubblica dell’Uzbekistan che per la prima volta sono a Venezia con un proprio Padiglione.
Curato da Eugenio Viola, il Padiglione Italia è sostenuto e promosso dal Ministero della Cultura, Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee Periferie Urbane. È costituito da una sola opera di Gian Maria Tosatti che occupa l’intero spazio delle Tese delle Vergini, nell’Arsenale altri artisti italiani sono impegnati nei padiglioni esteri e tra questi il biellese Lorenzo Puglisi, che nel padiglione di un paese musulmano propone uno dei simboli cardine del cristianesimo.
La mostra Il latte dei sogni si articola negli spazi del Padiglione Centrale ai Giardini e in quelli delle Corderie, delle Artiglierie e negli spazi esterni delle Gaggiandre e del Giardino delle Vergini nel complesso dell’Arsenale.
Il latte dei sogni include più di duecento artiste e artisti provenienti da 61 nazioni. Oltre 180 artiste e artisti non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale d’Arte prima d’ora. Per la prima volta negli oltre 127 anni di storia dell’istituzione veneziana, la Biennale include una maggioranza preponderante di artiste donne e soggetti non binari, scelta che riflette un panorama internazionale di grande fermento creativo ed è anche un deliberato ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuali.
La mostra presenta opere contemporanee e nuove produzioni concepite appositamente per la Biennale Arte, presentate in dialogo con lavori storici che datano dall’Ottocento fino ai nostri giorni.
“La mostra Il latte dei sogni prende il titolo da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011), in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé – spiega Cecilia Alemani -. L’esposizione nasce dalle numerose conversazioni intercorse con molte artiste e artisti in questi ultimi mesi. Da questi dialoghi sono emerse molte domande. Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?
Questi sono alcuni degli interrogativi che fanno da guida a questa edizione della Biennale Arte, la cui ricerca si concentra in particolare attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra”.
C’è poi il Padiglione Venezia, voluto dal Sindaco Brugnaro, che come tre anni fa sarà più un’esperienza sensuale che solo visiva. Il titolo? Alloro. Simbolo per eccellenza della metamorfosi, la pianta profumata viene celebrata dal duo di artiste Goldschmied & Chiari, che ha creato una sorta di tempio celebrativo della femminilità. Qui vi sono due sale costruite come un gioco di luci e ombre; c’è poi il centro del percorso, introdotto da “Best Wishes” di Ottorino De Lucchi, che propone l’istallazione “Lympha”, il mito di Dafne e Apollo reso in chiave moderna dall’artista Paolo Fantin con il gruppo Ophicina e accompagnato dalla musica, intitolata “Gocce di Alloro”, del maestro Pino Donaggio.
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La posa è sinuosa, il peplo segnato da una cintura stretta in vita. È in marmo pentelico, morbida, flessuosa. Il peso del corpo poggia sulla gamba destra, il braccio sinistro sospeso probabilmente a una lancia. È la statua acefala della dea Atena, custodita al Museo dell’Acropoli di Atene, che, dal 9 febbraio per quattro anni, soggiornerà a Palermo nel Museo archeologico regionale Antonino Salinas.
Il temporaneo trasferimento nel capoluogo siciliano è frutto di un accordo siglato fra i due musei. La Sicilia ha concesso, in cambio, al Museo dell’Acropoli (per quattro anni, rinnovabili per un uguale periodo) il frammento del fregio del Partenone appartenuto al console inglese Robert Fagan che, venduto nel 1820, era custodito al museo Salinas.
La consegna ufficiale è avvenuta alla presenza della ministra della cultura e dello sport della Repubblica ellenica, Lina Mendoni, e del direttore del museo dell’Acropoli di Atene, Nikolaos Stampolidis, che hanno affidato il prezioso reperto nelle mani dell’assessore regionale dei Beni culturali Alberto Samonà e della direttrice del Salinas Caterina Greco.
Presenti anche il sottosegretario alla cultura Lucia Borgonzoni e il professor Louis Godart, presidente onorario del comitato internazionale per la riunificazione dei marmi del Partenone e Accademico dei Lincei, insieme ai rappresentanti della Comunità Ellenica Trinacria di Palermo e della Comunità Ellenica dello Stretto.
“Oggi Atene consegna al Museo Salinas una statua della sua dea protettrice, Atena – ha annunciato la ministra Lina Mendoni –. Scolpita anch’essa in marmo pentelico, come le sculture del Partenone, ornava la Sacra Roccia dell’Acropoli nel V secolo a.C. Da oggi e per i prossimi quattro anni, Atena vivrà qui, a Panormo, nella fertile terra di Sicilia, per simboleggiare il lungo e fecondo legame che unisce la Sicilia e la Grecia”.
La ministra ha sottolineato poi come il ritorno ad Atene delle sculture del Partenone attualmente al British Museum rappresenti un obbligo morale per l’Europa, nell’ambito della tutela del patrimonio culturale comune. “L’accordo col museo siciliano indica la via maestra che Londra e il British Museum potranno seguire – ha continuato la ministra della cultura greca –. Le sculture del Partenone che si trovano al British Museum sono state sottratte. La Grecia non riconosce perciò alcun diritto di proprietà, di legittimità e di appartenenza su di loro. Al contrario, è legalmente obbligata e moralmente legittimata a pretendere e a richiedere, con ogni mezzo legale opportuno, il loro ritorno permanente e irrevocabile in patria per la riparazione dell’ordine giuridico e morale, e soprattutto per il ripristino dell’integrità del monumento stesso. La riunificazione delle sculture del Partenone non viene richiesta solo dall’opinione pubblica mondiale. Lo stesso monumento mutilato esige il ritorno delle sue componenti scultoree e architettoniche, al fine di riappropriarsi della sua unica e indivisibile entità fisica, estetica e semantica”.
E allo scadere dei quattro anni, quando la dea farà ritorno in patria? Sempre dal Museo dell’Acropoli arriverà a Palermo una preziosa anfora geometrica degli inizi dell’VIII secolo a.C.
Clementina Speranza
RIPRODUZIONE VIETATA
Giacomo Balla, pittore, scultore e scenografo, è nato a Torino il 18 luglio 1871. In occasione dei 150 anni dalla sua nascita la Galleria d’Arte Moderna di Milano (GAM) dedica un approfondimento a una delle sue opere più note: “Bambina che corre sul balcone”, abitualmente esposta nella Collezione Grassi, ora al centro di uno spazio al primo piano del museo.
La bambina ritratta nel dipinto è una delle sue figlie, la piccola Luce di 8 anni.
Balla inizia a realizzare “Bambina che corre sul balcone” nel 1912 e, con la tecnica divisionista, ricrea una scena quotidiana dando espressione al “dinamismo”, uno dei concetti chiave del movimento futurista.
Le linee verticali e orizzontali dell’inferriata del balcone si sovrappongono alle parti del corpo in movimento fino a fondersi in un’unica visione dinamica. Grazie alla sequenza dei fotogrammi leggermente sfasati e sovrapposti Balla ottiene l’effetto della velocità e del movimento. Per realizzare “Bambina che corre sul balcone”, l’artista aveva approfondito gli esperimenti condotti in fotografia a proposito di questo tema.
I colori sono vivaci e squillanti, eredità del periodo divisionista di Balla e delle sperimentazioni seguite a un viaggio a Düsseldorf, dove aveva potuto osservare alcune opere del fauvismo, corrente che usava il colore in modo puro ed emotivo. Balla sottolinea la vivacità della bambina con la scelta di tinte accese: azzurro, verde, giallo, marrone, che creano una sorta di mosaico in movimento.
Il balcone del quadro in questione è quello della casa romana di Balla, in via Paisiello e, a conferma di questo, sono esposti anche un olio di Armando Spadini che ritrae la strada e una fotografia del pittore con la famiglia proprio sul balcone rappresentato. Il dipinto è un olio su tela, di 125 x 125.
Accanto a “Bambina che corre sul balcone”, a Milano, fino al 13 marzo, sono esposti i disegni, gli schizzi preparativi e le bozze di Giacomo Balla sullo studio del movimento. Composizioni quasi astratte che consentono di capire l’intero processo alla base di quest’opera e ci danno notizie delle ricerche condotte dall’artista in quel periodo.
Clementina Speranza e Andrea Cordio
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