DA ROMA A ROMA

DA ROMA A ROMA

La memoria ci metterà alla prova tra un po’ di anni quando si ripenserà all’Europeo 2020 giocato nel ’21. Chissà quali inevitabili paralleli con lockdown, chiusure, mascherine e vaccini. Ma nello smarrimento di ricordi amari, si troverà una gemma preziosa: la fantastica corsa degli Azzurri.

La serenità è stata il marchio di fabbrica della loro impresa. Inaspettata, sorprendente perché arrivata dopo la storica e dolorosa mancata qualificazione ai mondiali. Lo scarso credito inizialmente concesso a una formazione priva di stelle e con tanti giovani si è trasformato, grazie alle belle prestazioni, in un ottimismo spensierato: merce rara di questi tempi! Ottimismo che ha permesso la realizzazione del sogno, nostro e di Roberto Mancini, unico visionario convinto nella vittoria quando iniziò il progetto.

Gli Europei sono storicamente ostici agli azzurri, ma il tecnico marchigiano è riuscito dove tanti avevano fallito, rinnovando una vittoria che mancava da 53 anni, quando alla guida c’era Mister Ferruccio Valcareggi e la partita si era giocata a Roma. E proprio da Roma è iniziata l’avventura di questa edizione itinerante (per il 60° anniversario) con la prima partita inaugurale disputata contro la Turchia. Da subito l’Italia ha sorpreso per la freschezza del gioco equilibrato e veloce che la squadra esprimeva con i tanti giovani supportati dalle rocce difensive Chiellini e Bonucci, con Jorginho vincitore della Champions e Spinazzola freccia tricolore sulla destra. Partita dopo partita, lo scetticismo è stato spazzato dalla qualità espressa in campo da tutto il gruppo e dalla serena leggerezza, tra scherzi e canzoni, che sbocciava nelle pause tra un match e l’altro a Coverciano, quest’anno più che mai vero rifugio degli azzurri dopo ogni trasferta. Per il clima, tranquillo e scanzonato, tipico nelle squadre di club quando le cose vanno bene, ha certamente avuto un ruolo decisivo il gruppo di tecnici a forte connotazione sampdoriana, creato e voluto da Mancini. Su tutti Gianluca Vialli, fraterno amico, anzi gemello del gol blucerchiato, che con la sua voglia di combattere il difficile momento personale, ha ricordato a tutti le giuste priorità e ha accolto gli abbracci, a ogni gol dell’Italia, e il pianto finale del c.t. Mancini a Wembley, là dove la Sampdoria aveva perso la mitica finale di Champions con il Barcellona di Cruyff.

Gli inglesi, sicuri di portare casa la vittoria, hanno approcciato la finale in casa con superba presunzione, fatta di organizzazione dei “sicuri” festeggiamenti, nessuna considerazione degli avversari con previsioni del numero di gol che avrebbero subito, tricolori bruciati, irriverenti fischi all’inno italiano. Tutto questo supportato dal gol iniziale di Shaw che già al 2° minuto sembrava spianare la strada alla conquista della Coppa. Ma proprio allora sono usciti il carattere, la determinazione e la qualità del gioco degli azzurri che hanno preso in mano la partita e raggiunto gli inglesi con Bonucci. Alla sfida dei rigori, superato il peso di non giocare in casa, grazie alle grandi mani di Gigio Donnarumma (premiato come miglior giocatore del torneo), la Coppa ha preso il biglietto per tornare a Roma. Gloria e gioia, lacrime e canti, caroselli e sfilate. Campioni d’Europa!

Pensiamo a quanto sarebbe stata bella questa edizione se si fosse svolta in un periodo normale, senza limitazioni pandemiche e con la possibilità di viaggiare che avevamo solo due anni fa. Cogliamo almeno la positività del fatto che gli addetti ai lavori hanno potuto ricominciare a spostarsi, seppur con tutte le difficoltà del momento. Rivedere finalmente alcuni stadi pieni, sentire i cori dalle tribune ha permesso di scorgere la luce in fondo al tunnel e ha mandato un segnale di speranza per un ritorno alla normalità.

Da Parigi a Londra” s’intitola il libro di Paolo Valenti, recensito su Emme22, che racconta l’avvincente storia degli Europei fino a quest’anno. Di questa edizione resterà sicuramente il dramma sfiorato per il malore del danese Eriksen e la prontezza del suo capitano Kjaer nel soccorrerlo e nel proteggerlo nel momento più delicato. Rimarranno le lacrime di Spinazzola quando sente il suo tendine spezzato. Rimarranno l’emozione e il tatuaggio di Sterling che realizza il suo sogno di bambino di segnare a Wembley. Rimarranno ovviamente gol e parate. Ma soprattutto resterà in memoria la serenità di capitan Chiellini nel siparietto con Jordi Alba prima dei rigori con la Spagna, il suo sorriso a occhi chiusi sui fischi all’inno di Mameli in finale, l’iconica trattenuta su Saka e il compiacimento educato alla consegna della Coppa, quando la alza nel cielo di Londra.

E se gli inglesi annunciavano prima della finale che il football “it’s coming home”, alla fine possiamo cantare che la Coppa, gli Europei, la vittoria “it’s coming Rome”.

Fabio Conte

ph Crediti Gianluca Di Marzio

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UN’ICONA DEL CALCIO, EMOZIONI E RICORDI

UN’ICONA DEL CALCIO, EMOZIONI E RICORDI

La scomparsa di Paolo Rossi ha colpito gli italiani già provati da un anno infausto. La notizia, arrivata qualche giorno dopo l’addio a Maradona, non ha innescato solo un cordoglio calcistico, come per l’argentino, ma una commozione generale, della gente comune, anche di chi non seguiva il calcio. Chiunque non sia un millennial ha visto riaffiorare le emozioni che il Pablito nazionale scatenò nell’estate del un’icona del calcio; in tanti sono tornati a ricordare quegli anni.

Siamo nei mitici anni ’80 che lentamente si liberano delle tensioni terroristiche del precedente decennio, anni in cui si vogliono dimenticare le inquietudini politiche e si prende la vita con maggior leggerezza. Non lo sapevamo ma eravamo più ricchi, più liberi, più felici. E la vittoria del mondiale spagnolo, inaspettata e imprevista, segna la fine dei cupi anni ’70. Scatena una gioia irrefrenabile, la prima grande festa collettiva e aggregante, cancellando sinistra e destra, borghesi e proletari, politici e contestatori. Tutti sul carro dei vincitori, anzi su carri, carrette, macchine e motorini strombazzanti con tricolori di ogni foggia e materiale, urlando e cantando per paesi e città.

Un carro, quello azzurro, prima dei mondiali non sostenuto da gran parte della stampa sportiva che contestava al c.t. Enzo Bearzot la cocciuta scelta di portare in Spagna e schierare proprio Paolo Rossi, reduce da alcuni mesi di squalifica dopo un dubbio verdetto nel primo processo sul calcioscommesse. Ma la nazionale si compatta e pensa solo a giocare, mandando un unico rappresentante a parlare con la stampa, il capitano Dino Zoff, da sempre parco di parole.

Una buona squadra quella italiana, con giocatori che avremmo imparato a chiamare campioni e con un grande catalizzatore, l’eroe di quel mondiale: Paolo Rossi che, nella partita impossibile contro un Brasile stellare e danzante, inizia a segnare, ben tre gol, e si ferma solo in finale con la Germania, regalando di fatto l’unità al paese con la prima vera vittoria dell’Italia. Ecco perché Paolo Rossi non è solo un calciatore, ma un’icona, un dolce ricordo per chi abbia attraversato quegli anni.  Uno scricciolo di atleta con un sorriso più grande delle spalle, con la genuinità di un ragazzo qualunque. Non era di Prato, di Vicenza o di Perugia, non era juventino o milanista, Paolo Rossi era un ragazzo come noi, come cantava Venditti, solo un ragazzo italiano che giocava a pallone, con le ginocchia rotte ma rapido come un fulmine, detto “Pablito”.

La commozione all’inaspettata notizia della dipartita di Paolo Rossi ha innescato così, in coloro che hanno memoria di quei giorni, le emozioni e i ricordi di un mondo che non c’è più, di un’Italia, di una vita, di una semplicità perdute, uccise dalla tecnologia e dall’economia, affossate dal Covid. Come una novella “madele ine” con la sua scomparsa ha riportato alla vita la memoria di quei giorni, proprio quei giorni dei tre gol al Brasile, delle vittorie su Argentina e Polonia, siamo ritornati esattamente a quell’11 luglio 1982, con le persone presenti allora con noi, riabbracciandole e ribaciandole come in un sogno. Salutandoci, Pablito, ha fatto tornare emozioni dimenticate e, rammentandole, siamo stati ancor più tristi perché ci siamo accorti di quanto fosse bella quella vita, vissuta con innocenza e speranza. Alla fine, però, ci è scappato un sorriso, come uno dei suoi, ricordando che quando in giro per il mondo qualcuno ti riconosceva come italiano, gridava: “Paolo Rossi, Paolo Rossi!”

Fabio Conte

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