IL MAESTRO MILANESE DEL MADE IN ITALY

IL MAESTRO MILANESE DEL MADE IN ITALY

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, gli architetti sono diventati designer e il design italiano si è diffuso a livello globale. Considerato uno dei principali designer della sua generazione nel panorama milanese e mondiale, Sergio Asti rientra sicuramente in questa cerchia.

Asti nasce a Milano nel 1926, dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano si forma alla professione di architetto. Oltre a progettare numerosi edifici e interni per clienti privati e aziendali, Asti è molto attivo nell’ambito dell’Industrial Design, infatti, è stato tra i primi ad affrontare questa nuova disciplina, fondando nel 1956 l’ADI (Associazione per il Design Industriale) di cui è anche stato Socio Onorario.

L’architetto ha collaborato con importanti aziende del settore come Boffi, Olivari, Cassina, Knoll, Poltronova, Zanotta, Gabbianelli, Salviati, Venini, Arteluce, Artemide, Fontana Arte, Martinelli Luce. Proprio con l’amico Elio Martinelli, Sergio Asti inizia una collaborazione negli anni Sessanta e crea lampade icone del design italiano. Profiterolle (realizzata in metacrilato e fibra di vetro per donarle un effetto spumoso) e Visiere sono due apparecchi ideati nel 1968 e che donano fascino agli ambienti anche quando non sono illuminati.

La lampada Visiere, in particolare, nasce dalla profonda conoscenza e passione del designer per il Giappone ed evoca gli antichi elmi dei samurai. Le tre semisfere che la compongono sono sovrapposte per diffondere una luce morbida e soffusa che si spande con toni diversi e suggestivi negli spazi illuminati.

Nella sua amata Milano, Asti ha realizzato diversi edifici residenziali come La Tizianella (1961) dove per gli interni ha appositamente progettato l’omonima maniglia prodotta da Olivari. Sempre a Milano è stato autore di negozi, showroom, uffici e ristoranti, e si è occupato di allestimenti per La Rinascente, la Fiera e la Triennale. Ha progettato anche ville in Brianza, sui Piani d’Ivrea e in Liguria.

Ha dato vita anche a complementi d’arredo in ceramica (i vasi della collezione Toky di Superego Edition del 1980) e in cristallo (il set di bicchieri Mapan in collaborazione con la cristalleria Arnolfo di Cambio).

La sua raffinata ricerca formale e il sapiente uso dei materiali hanno contribuito alla vincita del premio Compasso d’Oro nel 1962 con il vaso portafiori della serie Macro per Salviati & C., e alla consegna di una medaglia d’oro e una d’argento alla XI Triennale. I suoi lavori di design sono stati esposti in diversi importanti musei tra cui il London Design Museum (1989), il MoMA di New York (2005), il Philadelphia Museum (2008).

L’opera e l’eredità culturale di Sergio Asti, scomparso nel luglio 2021, è il tema della giornata di studi che si terrà all’ADI Design Museum il prossimo 11 maggio. Grazie ai contributi di numerosi studiosi e alle testimonianze delle aziende con cui Asti ha collaborato si intende aprire una riflessione teorica e critica sul significativo lavoro progettuale del grande maestro milanese.

Simone Lucci

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L’ARTE DI FILIPPO BRAGATT

L’ARTE DI FILIPPO BRAGATT

Emiliano di adozione, creativo, autentico, comunicativo. Lui è Filippo Bragatt, artista famoso per le installazioni e per i grandi ritratti di personaggi famosi. Di recente, un suo bellissimo dipinto nella copertina della rivista Arbiter e “Never Let Your Brain Sit”, l’installazione donata al comune di Santa Margherita Ligure: una panchina rosa, bianca e blu attraversata da un albero. “Quella panchina nasce per dimostrare che la natura si può ribellare: in una panchina su cui ci rilassiamo, leggiamo il giornale, ci baciamo, irrompe un albero. Vuole essere un monito per trovare una convivenza sostenibile”.

Ho conosciuto Bragatt mentre facevo un ordine per i miei negozi in un’azienda di streetwear (Progetto 27) dove Bragatt è consulente creativo. Inizialmente sulle stampe delle t-shirt reinterpretava, e in parte dissacrava, alcuni personaggi storici italiani famosi in tutto il mondo: Dante Alighieri, Garibaldi, Leonardo da Vinci, Giuseppe Verdi. Così i geni diventavano moda e la moda diventava arte. 

La sinergia creata tra l’artista e il fashion brand ha fatto sì, che i capi venissero indossati anche da personaggi dello spettacolo.

Il nostro incontro più recente avviene a Firenze, in un bar. Mi saluta con un gran sorriso e inizia con questa frase la nostra intervista, “Grazie Cristiano per essere qua, vedi ogni storia è un cammino in cui l’emozione più bella è negli inizi, iniziamo questo piccolo viaggio insieme in maniera solare”. Mi colpisce la sua frase, e mi colpisce la storia della sua carriera: un percorso, fatto di scelte, incontri, scontri e fortune, partendo dalla provincia di Milano. Bragatt comincia la sua carriera esibendosi in spettacoli comici in locali di provincia, ma capisce presto che preferisce le arti grafiche, un metodo veloce e diretto per arrivare alle persone.

Mentre parliamo poggia sul tavolo la tazza di caffè, sorride e dice “L’arte salva chi la fa”. E mi spiega, che il bello di fare arte è proprio partire dalle sconfitte e risalire la china.

Un suo sogno? Esporre al Moma di New York. 

Ma quale opera esporrebbe? “Un’idea che riguarda la capacità di sognare, semplice e densa di significato allo stesso tempo: un cassetto gigante, vicino a un piccolo comodino. Realizzato, ovviamente, in marmo di Carrara!

Sappiamo ancora concederci il tempo per vedere i sogni che stanno nel nostro cassetto, o il cassetto è solo un posto per riporre ciò che non usiamo?”, aggiunge Bragatt.

Basquiat, Keith Haring, Pollock, Schifano, Guido Cagnacci, Gino de Dominicis, Domenico Gnoli, Jeff Koons, Damien Hirst, Julian Schnabel, Francesco Vezzoli, sono le fonti dalle quali Filippo Bragatt trae ispirazione e stimoli per esprimere il suo genio creativo. “Mi incuriosiscono e mi interessano le loro vite, ancor prima delle loro opere. Vite che si incrociano con città, metropoli, epoche e periodi storici completamente diversi”, spiega.

E mi racconta di Mario Schifano, uno dei più importanti artisti italiani della scena nazionale e internazionale degli anni Sessanta. Un Andy Warhol tutto italiano, dal carattere eccentrico e poliedrico, amante della bella vita e innamorato della sua Roma. “Con i soldi della sua prima mostra compra una MG bianca, e la guida senza patente, distruggendola contro un palo poco dopo”, riferisce accennando un sorriso. 

Il tempo vola, e quando si avvicina il momento del saluto Bragatt conclude con un messaggio: “L’arte è rappresentazione della vita, allora è proprio da essa che si deve partire”.

Cristiano Gassani

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