ADDIO AL GRANDE MARADONA

ADDIO AL GRANDE MARADONA

Quando tutto lo stadio si aspettava l’urlo d’inizio dell’Haka, la danza rituale neozelandese, Sam Cane, il capitano degli All Black, nel silenzio totale che solo il pubblico del rugby sa rispettare, si è diretto a centro campo e, di fronte alla squadra dei Pumas argentini abbracciati, ha deposto a centrocampo la maglia nera col numero 10 e con il nome di Maradona. Questo testimonia una volta di più la trasversalità di emozioni che la scomparsa del “pibe de oro” ha lasciato in tutto il mondo del calcio e dello sport.

Se ha colpito la sensibilità di una nazione come la Nuova Zelanda, dove un pallone è sempre ovale, ancor più la scomparsa di Diego Armando Maradona ha scosso e turbato il suo paese natale, l’Argentina, e la sua patria acquisita Napoli.

Maradona ha raggiunto la sua massima fama, anche nella nazionale argentina, quando viveva e giocava in Italia, quando tutti guardavano alla Serie A come al più importante campionato d’Europa. Chi ha potuto vederlo dal vivo, com’è capitato a me, ricorda la magia delle movenze, le giocate inaspettate e geniali, mai fini a se stesse ma funzionali ai compagni e alla partita. Certo, memorabili sono rimasti palleggi funambolici, gol impossibili, ma quel che risulta nei racconti e nell’emozione di tutti è un uomo generoso e altruista, che non si è mai lamentato in campo per i colpi subiti. Giocava, e rispettava gli avversari.

In questi giorni, compagni, avversari, allenatori e giornalisti hanno fatto a gara per raccontare aneddoti, storie, episodi che descrivono il più forte giocatore del mondo, uguale a Pelé o meglio ‘e Pelè, come una persona sensibile, umile e disinteressata. Più di un ex compagno ha rammentato come si fosse posto quale latore di rivendicazioni salariali presso i dirigenti, o come ricordasse qualche giovane riserva con cui aveva giocato solo un paio di volte, incontrandola a distanza di anni. Maradona si è sempre scontrato con i vertici della Fifa e dell’Uefa, cosa che non ha certo guadagnato favori arbitrali all’Argentina, in particolar modo nella finale dei mondiali italiani del ’90 contro la Germania, decisa da un rigore dubbio, o in occasione della squalifica per doping negli U.S.A. nel ’94.

Iconica per tutti i tifosi rimane la vittoria del Mondiale del ’86 in Messico con i mitici quarti di finale contro l’Inghilterra, dove Maradona prima segnò grazie all’astuta e ribalda “mano de dios”, e tre minuti dopo confezionò “il gol del secolo”  con un’azione che saltò mezza squadra inglese.

Maradona era napoletano nei modi, nel carattere, e anche nell’aspetto da scugnizzo tutto anema e core.  Nel bene e nel male. Non si può scindere Diego da Maradona, la persona dal personaggio, l’uomo dal campione, la squadra dalla città. Si conoscono debolezze e vizi, peccati e colpe di Diego, che da umilissimi natali, grazie a un dono incredibile e a un fisico robusto ed elastico, è diventato Maradona, il più grande calciatore del mondo. L’emozione che pervade Napoli in questi giorni, viva, palpabile, è la conseguenza del lutto di chi ha perso un figlio.

Fabio Conte

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