FIRENZE CELEBRA SALVATORE FERRAGAMO

FIRENZE CELEBRA SALVATORE FERRAGAMO

Sono trascorsi cento anni da quando Salvatore Ferragamo, nel 1923, apre il primo negozio a Hollywood e diventa uno dei protagonisti della moda internazionale. Con il successo negli Stati Uniti, il giovane artigiano viene soprannominato il calzolaio delle dive in quanto la sua produzione inizia a diversificarsi in scarpe per il cinema, per il teatro, per il balletto. Ed è proprio tra calzature, bozzetti, 369 brevetti depositati, fotografie, opere d’arte e video che il Museo Ferragamo di Firenze celebra il fondatore della maison ripercorrendo tutta la sua vita, dalla nascita nel 1898 alla morte nel 1960, con la nuova mostra “Salvatore Ferragamo. 1898-1960” curata da Stefania Ricci.

La retrospettiva è molto di più di un’esposizione, è una vera bobina della memoria, un’indagine a ritroso suddivisa in diverse sale e ognuna racconta un aspetto differente della vita e della produzione Ferragamo. La raccolta d’informazioni, dati storici, documenti e oggetti, che sono il frutto di una ricerca durata 38 anni, permettono di tracciare un’esistenza che attraversa la prima metà del Novecento, tra due guerre e due mondi: l’Italia e l’America.

Il periodo americano, raccontato con fotografie, filmati e calzature originali, inizia nel 1923 quando Salvatore Ferragamo sceglie un locale in Hollywood Boulevard, noto come Hollywood Boot Shop per realizzare il primo negozio. Non cambia il nome, ma trasforma l’arredamento: colonne classiche, mobili di fattura neorinascimentale e un elegante divano contribuiscono a creare un’atmosfera intima ammiccando a quell’Italia dell’arte e della cultura che gli americani amano tanto. Il negozio diventa un punto di riferimento per le ballerine, i registi, i produttori e per le star del cinema, come Pola Negri, Mary Pickford, Joan Crawford, Rodolfo Valentino. Nel 1926 Salvatore costituisce la società Ferra-Gamo Inc., che continuerà a operare anche nei primi anni dopo il trasferimento in Italia ed è documentata in mostra da una scarpa che nell’etichetta, mette in relazione Hollywood con Firenze. La presenza di Ferragamo a Hollywood è contrassegnata anche dal coinvolgimento diretto in attività culturali e di promozione artistica, come attestano le originali campagne pubblicitarie e l’avvicinamento al teatro dell’Hollywood Bowl.

Un’ulteriore scelta fuori dagli schemi del calzolaio è l’utilizzo di molteplici e innovativi materiali per la realizzazione delle calzature. La sua sensibilità per la materia la si riscontra nell’uso di pelli pregiate che offrono effetti inaspettati tramite i patchwork e il colore, ma il vero rinnovamento del linguaggio della moda avviene con l’introduzione di materiali decisamente inconsueti come la pelle di pesce, il gros-grain, i cilindri di sughero cuciti e ricoperti di capretto, le canape, le rafie e il cellofan, ottenuto attorcigliando carte di caramelle. Le scarpe in merletto di Tavarnelle o in rafia, ad esempio, recuperano una lavorazione tradizionale della Toscana ma la reinventano nel colore, nei decori geometrici e soprattutto nella destinazione: le scarpe.

Durante la guerra Ferragamo sfrutta con libertà le materie prime più desuete, come legni laccati, feltri, merletti di spago e resine sintetiche quali la bakelite. Terminata la guerra, non abbandona i materiali poveri ma attinge contemporaneamente a quelli più innovativi (vinilite e filo di nylon), oppure a quelli più preziosi come l’oro zecchino.

Tanti sono i materiali impiegati e molteplici sono le fonti d’ispirazione a cui Ferragamo può attingere, soprattutto dalla sua collaborazione ai primi film in costume americani. La scoperta nel 1922 del tesoro funerario del faraone Tutankhamon suggerisce al calzolaio i modelli e gli ornamenti dei sandali per il film I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille, i decori della Villa dei Misteri a Pompei gli ispirano una linea di scarpe, le Pompeian, e un sandalo alla romana, il Coturno, soggetto preferito delle prime pubblicità. La storia e il paesaggio della California sono fonte di molteplici spunti creativi. Le decorazioni degli accessori e degli abiti indossati dagli Indiani d’America si trovano riflesse in alcuni modelli degli anni Venti e ritornano nelle creazioni dei decenni successivi. L’uso disinvolto dei colori è un’ulteriore caratteristica dello stile della maison, infatti predilige i colori primari, forti e decisi. Li impiega in assolo o combinati in originali patchwork geometrici, in cui gli accostamenti cromatici azzardati assecondano la forma e la particolarità dei materiali. Il bianco e il nero sono abbinati in tomaie geometrizzanti, di ispirazione cubista, o con effetti optical. Ferragamo preferisce il blu intenso, il verde smeraldo, il giallo del sole fino alle gradazioni dell’oro, l’argento lunare, e il rosso, simbolo di vita e di energia, la nuance che ama di più.

Il calzolaio ha anche anticipato modi e mode nella costruzione della scarpa, e non soltanto con invenzioni bizzarre. Le decorazione e gli ornamento sono sempre in relazione alla forma, concepita come un bilanciamento armonico di simmetrie, un perfetto dosaggio di pesi e misure. L’attitudine progettuale di Salvatore è forte e pur realizzando modelli artigianali ed esclusivi, il calzolaio li crea pensando alla loro riproducibilità come dimostrano i 369 brevetti depositati. Alcune invenzioni degli anni trenta hanno rivoluzionato il sistema di costruzione della scarpa, come il brevetto del tacco a zeppa di sughero, inventato nel 1937 per sollevare il tallone e offrire all’arco del piede un appoggio stabile. Nel 1946 progetta una suola antiscivolo per scarpe da bambino per evitare la torsione del piede verso l’interno. Nel 1952, un modello scollato a tacco alto in cui la suola è limitata alla parte anteriore e alla fine del tacco, rendendo la calzatura flessibile come un guanto. I tacchi in anima d’acciaio e a gabbia del 1955 guardano con nostalgia all’Art Nouveau, mentre la “suola a conchiglia” contiene il piede e lo accarezza con la sua forma avvolgente.

Ferragamo, inoltre, prende personalmente le misure dei piedi dei clienti e le trasferisce sulle forme di legno, vere e proprie sculture funzionali alla costruzione delle scarpe, dove sono riportati i piccoli o grandi difetti dei piedi. Di queste forme alcune sono conservate presso l’Archivio Ferragamo ed esposte in questa mostra. Questa attenzione del calzolaio attrae nel suo negozio le dive dell’epoca come Gloria Swanson e Claudette Colbert che sceglievano scarpe classiche, Marlene Dietrich chiedeva i modelli di tendenza, che indossava al massimo due volte, la duchessa di Windsor ordinava scarpe bicolori per l’estate e in tinta unita per l’inverno, Ingrid Bergman si sentiva a suo agio con i tacchi bassi, Evita Perón prediligeva i pellami esotici del suo paese, l’Argentina. L’originalità dei modelli è frutto tanto dell’innata creatività di Ferragamo quanto delle varie personalità che formano la sua esigente clientela. Se la sensualità di Marilyn Monroe è amplificata dalle famose scarpe scollate con tacco a spillo di 11 cm, l’eleganza sportiva ed essenziale di Greta Garbo è messa in risalto dalle scarpe maschili.

Ferragamo non è stato solo un artigiano e il calzolaio delle dive, la sua figura assume il fascino di un guaritore, di un ingegnere e di uno studioso di anatomia. Le foto delle sue mani che toccano i piedi dimostrano che la qualità unica delle sue scarpe partiva dall’ineguagliabile capacità di sentire e amare la bellezza del piede. Nelle sue memorie scrive: “Adoro i piedi, ho la sensazione che mi parlino. Quando li tocco posso avvertirne la forza e la debolezza, la vitalità e i difetti. Un piede in buona salute, con i muscoli saldi e l’arco robusto, è un capolavoro di fattura sublime”.

Simone Lucci 

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UN VIAGGIO NEL DESIGN SARDO: L’ARTE TESSILE DI SAMUGHEO

UN VIAGGIO NEL DESIGN SARDO: L’ARTE TESSILE DI SAMUGHEO

Si è da poco conclusa la BIT (Borsa Internazionale del Turismo) di Milano e tra i padiglioni di diversi Paesi e Regioni al mondo c’era anche un grandissimo stand Sardegna. Il viaggio che vi proponiamo è nell’arte tessile. Un viaggio senza tempo che vi condurrà nel cuore della cultura tessile di Samugheo.

Un salto nel passato a Samugheo

Nel suggestivo paesino di Samugheo, le strade si trasformano in un palcoscenico di murales che narrano tradizioni tessili e folkloristiche. Queste opere d’arte non solo arricchiscono l’ambiente urbano, ma ci trasportano in un’epoca passata, rivelando i segreti e i tesori di questa comunità. Ogni murale è una finestra sul passato, una testimonianza visiva della maestria artigianale e della passione, elementi che hanno caratterizzato la storia tessile di Samugheo nei secoli.

La tessitura come forma di espressione culturale

A Samugheo, l’arte della tessitura è molto più di una pratica artigianale: è un’autentica forma di espressione culturale. Le donne di questa comunità hanno tramandato con orgoglio le loro conoscenze, creando tessuti che sono veri e propri tesori di tradizione e creatività. Ogni filo tessuto è un pezzo di storia, intessuto con passione e dedizione da generazioni di donne che hanno custodito gelosamente le antiche tecniche e i segreti della tessitura sarda. Dai tappeti alle coperte, dalle tovaglie ai vestiti tradizionali, ogni manufatto tessile racconta una storia unica, una storia che parla della terra, del mare e delle tradizioni millenarie di questa terra straordinaria.

L’evoluzione della tradizione tessile

Nel corso dei secoli, l’arte tessile a Samugheo ha conosciuto un’evoluzione straordinaria, trasformandosi da attività casalinga a fiorente settore economico. Le innovazioni tecniche e l’uso delle materie prime locali hanno reso Samugheo un polo tessile di rilevanza internazionale. Dai primi rudimentali telai ai moderni macchinari, la storia della tessitura sarda è una storia di innovazione e adattamento, una storia di donne coraggiose e determinate che hanno saputo trasformare le sfide in opportunità. Oggi, le imprese tessili di Samugheo continuano a prosperare, mantenendo vive le antiche tradizioni e al tempo stesso abbracciando le nuove tendenze del design e della tecnologia.

L’imprenditoria femminile come motore di cambiamento

Un ruolo chiave in questa trasformazione è stato giocato dalle imprenditrici tessili di Samugheo, donne coraggiose che hanno trasformato la tradizione tessile in un’opportunità imprenditoriale. Il loro impegno e la loro visione hanno contribuito a plasmare il panorama tessile della Sardegna, aprendo nuove strade e creando nuove possibilità per le generazioni future. Elisabetta Barra, Grazia Pitzalis, Basilia Sanna sono esempi di forza e determinazione, di resilienza e creatività, che hanno reso possibile ciò che un tempo sembrava impossibile, in un epoca in cui le donne non potevano letteralmente fare impresa, ma potevano montare un laboratorio tessile nel proprio cortile o nel pianoterra, dando lavoro anche alle donne che avevano il telaio in casa. 

La sinfonia dei tessuti sardi

Nonostante le radici profonde nella tradizione, le imprese tessili di Samugheo hanno saputo coniugare l’eredità artigianale con l’innovazione, mantenendo uno stile distintivo che racconta la storia e l’anima della Sardegna. I tessuti di Samugheo sono una sinfonia di colori e motivi, una celebrazione della bellezza e della creatività che caratterizzano questa terra unica. Le aziende più rilevanti del tessile samughese si possono scoprire nella vetrina ufficiale questo link: https://www.samugheostory.it/artigianato-tessile-samugheo/laboratori-tessili-artigianali/

 

La Visione di SRDN: La Sintesi Perfetta tra Tradizione e Innovazione

Un recente esempio di questa fusione tra tradizione e innovazione è dato dalle collezioni SRDN, (www.srdn.store) che hanno saputo catturare l’anima della Sardegna attraverso il design tessile d’arredo e trasferirlo nel mondo dell’abbigliamento, rendendo l’arte dei pibiones, indossabile. Le collezioni SRDN sono un tributo alla bellezza e all’eleganza della tradizione sarda, reinterpretate in chiave moderna con stampe e pattern decorativi che esaltano la ricchezza culturale dell’isola. 

Termina qui il viaggio nell’eleganza, nella storia e nel cuore dell’arte tessile di Samugheo. Ora resta visitare di persona  le varie comunità e continuare a esplorare le meraviglie del design e dell’artigianato tessile.

Maurizio Demelas

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LE SCARPE MORBIDE E LEGGERE PER CORRERE PIÙ VELOCI

LE SCARPE MORBIDE E LEGGERE PER CORRERE PIÙ VELOCI

Il piacere di correre al mattino presto da soli, senza fretta, senza stress, solo il rumore dei passi sull’asfalto. Per molte persone, la strada è un luogo in cui sentirsi se stessi, indossando e pensando quel che si vuole senza schemi e regole. In “What women want” è così che i corridori dovrebbero vivere la corsa secondo gli attori Helen Hunt e Mel Gibson, ma di cosa hanno davvero bisogno i runners per dare il massimo durante le loro prestazioni? Sicuramente di una calzatura con caratteristiche ben precise per rendere la corsa sicura e piacevole.

Le scarpe da running, infatti, devono rispondere a quattro caratteristiche fondamentali: leggerezza, flessibilità, protezione e controllo. Le scarpe meno pesano e più agevolano nello sforzo soprattutto per chi percorre distanze molto lunghe e devono anche difendere il piede dai microtraumi dovuti agli impatti con il terreno. Queste peculiarità le conosce molto bene anche HOKA®, il brand francese di scarpe e abbigliamento sportivo nato nel 2009 e successivamente acquisito del gruppo Deckers Brands, che recentemente ha presentato la nuova calzatura Clifton 9.

La nona versione della serie Clifton è il frutto di una sostanziale rivisitazione delle trainer con l’obiettivo di fornire a ogni runner l’opportunità di migliorare le sue performance. “Clifton non è solo uno dei nostri prodotti di punta più popolari, ma vuole essere il compagno ideale per un’esperienza di corsa più piacevole e adatta a runner con qualsiasi livello di esperienza – dichiara Colin Ingram, Senior Director of Product di HOKA® –. Riteniamo che sia i fans di lunga data che i nuovi runners ritroveranno in questa scarpa le caratteristiche di fluidità ed equilibrio tipiche delle Clifton, ma saranno allo stesso tempo sorpresi dalla leggerezza e dalla reattività della nostra nuova versione”.

Riducendo di 4 grammi il peso e incrementando di 3 millimetri l’altezza della suola, la nuova scarpa da running offre sensazioni rivitalizzanti alla pianta del piede grazie alla nuova schiuma reattiva e a un design della suola migliorato. Privata dei rinforzi e degli elementi termofusibili, la tomaia semplificata è stata realizzata con processi rispettosi dell’ambiente ed è caratterizzata da un tallone più morbido dotato di pannello catarifrangente e una linguetta snellita e rinforzata sul lato mediale.

Con un peso di 205 grammi per la taglia 7 da donna e di 248 grammi per la taglia 9 da uomo, questa scarpa rappresenta la combinazione perfetta di morbidezza e leggerezza per migliorare la velocità, infatti anche pochi milligrammi possono fare la differenza quando si è già molto veloce o si cerca di diventarlo ancora di più.

Scegliere le calzature adatte, quindi, non significa semplicemente acquistare le stesse indossate dagli amici più navigati o quelle disponibili in negozio, ma utilizzare le migliori scarpe da corsa comode e con il giusto supporto, sia per chi sta approcciando per la prima volta il mondo del running sia per chi si sta allenando per l’ennesima maratona.

Simone Lucci

Deckers Brands vanta oltre 40 anni di storia nella creazione di marchi di calzature di nicchia e si occupa della progettazione, commercializzazione e distribuzione di scarpe, abbigliamento e accessori innovativi sviluppati sia per l’uso quotidiano in uno stile di vita casual che per attività ad alte prestazioni. L’azienda include nel suo portafoglio i marchi UGG®, KOOLABURRA®, HOKA®, Teva® e Sanuk®. I prodotti Deckers Brands sono venduti in più di 50 Paesi e territori attraverso grandi distributori selezionati, negozi specializzati, punti vendita di proprietà e negozi online selezionati, inclusi i siti web di proprietà dell’azienda.

JOHN GALLIANO, L’ENFANT TERRIBLE DELLA MODA

JOHN GALLIANO, L’ENFANT TERRIBLE DELLA MODA

Per quasi 20 anni John Galliano è stato tra i più influenti stilisti al mondo prima di scontrarsi con i propri demoni ed essere ostracizzato dall’industria della moda. Il film High & Low: John Galliano del premio Oscar® Kevin Macdonald, presentato durante il festival del cinema di Roma, indaga le molteplici sfaccettature e le contraddizioni del carattere di Galliano, i decenni di pressione da parte dell’industria fashion e la dipendenza da droga e alcol, la sua caduta e la sua ripresa. Il documentario è raccontato attraverso le interviste agli amici più cari, alla sua famiglia, alle celebrità del settore moda e del pop (Naomi Campbell, Kate Moss, Penelope Cruz, Charlize Theron, Anna Wintour, Edward Enninful, Boris Cyrulnik, Hamish Bowles, Sidney Toledano), e ovviamente a John Galliano stesso.

Juan Carlos Antonio Galliano Giullén nasce nel 1960 a Gibilterra in una famiglia modesta. Suo padre Juan, anglo-italiano, fa l’idraulico, sua madre Anita, spagnola, è una ballerina di flamenco. Galliano frequenta la prestigiosa Saint Martins School di Londra dove la sua collezione finale del corso di studi ispirata alla Rivoluzione francese riscuote un’immediata approvazione. Nel 1984, lo stilista lancia il suo marchio di prêt-à-porter e nel 1987 il British Fashion Council lo nomina designer dell’anno. Negli anni ’90 si stabilisce a Parigi dove ha luogo la sfilata “Princess Lucretia”, la migliore collezione di sempre secondo Anna Wintour, che ha un enorme successo. Il talento di Galliano viene notato anche da Bernard Arnault, patron del gruppo del lusso LVMH, che lo assume per sostituire Hubert de Givenchy nel 1995. L’anno seguente è quello della consacrazione: John Galliano prende il timone della maison Dior in sostituzione di Gianfranco Ferré (da Givenchy arriva un giovane Alexander McQueen). Il primo vestito che realizza è un abito indossato da Lady Diana in occasione dei 50 anni della griffe. Con Galliano da Dior tutto cambia. Oltre alla qualità delle collezioni, lo stilista si distingue per la sua abilità nei tagli, le sue sapienti mescolanze di materiali e la lucentezza dei colori. Padroneggia magistralmente le tecniche del drappeggio e dello sbieco sviluppate da Paul Poiret e Madeleine Vionnet. Il designer britannico ha creato collezioni che sono racconti su temi come il romanzo oscuro e malvagio di Matrix o Anna Karenina di Tolstoj e la perduta principessa Anastasia dei Romanov.

Dopo un lungo periodo di successi e riconoscimenti, i riflettori si spengono e John Galliano cade dall’Olimpo della moda. Nel 2011, infatti, lo stilista viene licenziato da Dior per offese antisemite durante una serata in un caffè parigino del Marais. Il fatto lo porta all’arresto e a una condanna. Lo stilista inglese si ritira dal pubblico per far fronte ai problemi di alcol e droga. L’unico abito che crea in questo periodo è il vestito per il matrimonio di Kate Moss con il rocker Jamie Hince.

All’inizio del 2013, in seguito alla sua riabilitazione, Galliano accetta l’invito di Oscar de la Renta, mediato da Anna Wintour, per una collaborazione temporanea per la stagione Fall/Winter 2013/14.

Il vero riscatto avviene il 6 ottobre 2014 quando il Gruppo OTB annuncia che John Galliano diventa il direttore creativo di Maison Margiela. Lo stilista torna ad avere un ruolo di primo piano nel design della moda di lusso. La sua prima collezione per Margiela viene presentata nel gennaio 2015 e si dimostrata perfetto nel ruolo, portando il suo talento e il concetto di decostruzione a nuove vette creative.

La vita e la carriera di John Galliano è un alternarsi di luci e ombre, una parabola tanto luminosa quanto buia costellata di successi, eccessi ed eccentricità puramente british. Un mix che rende lo stilista inglese un enfant prodige e terrible della moda e un chiaro esempio di genio e sregolatezza.

Simone Lucci

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UN TALK CON THE NORTH FACE E LIFEGATE

UN TALK CON THE NORTH FACE E LIFEGATE

La moda si interroga sul suo prossimo futuro e come dovrà contribuire alla transizione verso l’economia circolare. La Comunità Europea ha tracciato un percorso chiaro verso la sostenibilità della produzione di capi di abbigliamento che accompagnerà i brand da qui fino al 2030, data in cui dovrà essere raggiunto l’obiettivo. 
Il 12 ottobre, nello store Orefici 11, a Milano, si è svolto un talk che ha affrontato il tema della moda circolare e ha messo a confronto giornalisti, professionisti del settore e Lifegate, network di informazione e servizi a sostegno di tutti i soggetti che lavorano per un ambiente sostenibile.
Consapevoli che la moda è uno dei settori che dovrà contribuire all’economia circolare, quale è lo stato dell’arte? Su cosa stanno lavorando i brand del settore? A questi e altri interrogativi sono stati invitati a rispondere: Ilaria Chiavacci (giornalista che si occupa di moda, sostenibilità, ambiente, sport e outdoor), Julian Lings (The North Face Senior Sustainability), Silvia Stella Osella (consulente creativa), Matteo Aghemo (co-founder di Must Had). A moderare il dibattito Tommaso Perrone (Direttore di LifeGate).

A che punto siamo da qui al 2030 per rendere il settore della moda più riciclabile? “La questione della sostenibilità della produzione di capi di abbigliamento risale agli anni 70, ma l’idea che le risorse fossero illimitate e la innata capacità del pianeta terra a mantenere in equilibro l’ecosistema, ha fatto si che solo oggi, dopo l’evidenza scientifica del cambiamento climatico in corso, si prenda reale coscienza del problema – risponde Ilaria Chiavacci -. La nascita del fast fashion, la produzione di grandi quantità di abiti a costi bassi, con un elevato numero di collezioni durante l’anno, ha spinto tutti i brand a una sovraproduzione. Il consumatore si è abituato a un continuo inserimento di prodotti nuovi che ha spinto anche i brand di pret-a-porter a produrre un numero maggiori di collezioni.
Ora siamo arrivati a una sovraproduzione eccessiva. Si stima che ogni cittadino dell’unione europea compri annualmente circa 26kg di prodotti tessili, che equivale a circa 650kg di CO2 nascosta. Ed è avvilente scoprire che molti di questi abiti non riusciamo neanche a indossarli, solamente in Italia finiscono in discarica 1,5 tonnellate di rifiuti tessili ogni anno.
Nel 2013 la tragedia in Bangladesh, del crollo di un palazzo in cui stavano lavorando molti operai nella manifattura tessile, con migliaia di morti, è stato uno spartiacque. Da allora sempre più brand hanno cominciato a pensare ad una produzione che sia sostenibile per l’ambiente. 
In sostanza oggi, l’Europa ci chiede di produrre meno, è stato preparato un documento programmatico che ha l’obiettivo di arrivare nel 2030 ad avere le aziende di moda con una produzione che soddisfi determinati requisiti. Le aziende sono obbligate a pensare il nuovo prodotto con una ottica circolare fin dalle prime fasi del design per giungere fino al fine vita, solo così sarà a ridotti consumi di energia e di acqua. L’introduzione dell’utilizzo delle fibre riciclate non sarà sufficiente a limitare la CO2 se continuiamo a produrre in sovrabbondanza. La moda deve abbracciare l’economia circolare e per fare questo deve adottare la capacità di produrre nuovi capi partendo da quelli vecchi”.

Fin dagli anni 70 avete iniziato un percorso per migliorare il brand. Come cambia l’azienda?
The North Face è una azienda che fin dagli anni 60 è stata sempre qualcosa di più di un brand, i fondatori avevano una visione molto chiara sulle sfide del mondo, come affrontare le tematiche dell’ambiente e delle problematiche sociali dei lavoratori – precisa Julian Lings -. La circolarità nel nostro settore non era assolutamente presa in considerazione, solo pochi brand avevano la sensibilità per valutare l’impatto ambientale della produzione tessile, mentre ora tutti i brand dovranno darsi una vera regolamentazione. Noi abbiamo iniziato ben prima che se ne parlasse, il reparto di ricerca e sviluppo e la produzione ha sempre collaborato con gli atleti, al fine di garantire dei prodotti con alte performance e con la prerogativa di durare molto nel tempo, mantenendo le sue specifiche caratteristiche tecniche.
Nel ’71 è stato aperto il dipartimento di durabilità e riparabilità. Abbiamo iniziato con l’obiettivo di incrementare la longevità degli articoli, offrendo il servizio di riparazione dei prodotti.
Se piace il prodotto, ma si è rotta la cerniera di uno zaino per usura, noi possiamo ripararlo. E questo vale anche per un giubbotto, i segni dell’usura o piccoli tagli sulla stoffa si possono riparare andando così a creare un prodotto unico, cioè l’imperfezione diventa unicità. Tale prodotto andrà a creare una connessione con chi lo indossa, un rapporto speciale che ti accompagna nel tempo. Purtroppo, a livello globale, stiamo producendo troppi rifiuti, quindi parlando con altri brand, abbiamo deciso di produrre prodotti di alta qualità che durino nel tempo e che si possano riparare e al termine del ciclo di vita sia possibile il suo riciclo. Questo è il processo di economia circolare.
È fondamentale decidere la circolarità nel momento del design, abbiamo sempre realizzato prodotti ad alta tecnologia e con lunga durata ma ora entra in gioco una nuova variabile: dobbiamo pensare alla circolarità. Cioè quando il prodotto rientra da noi deve essere scomposto per tornare materia prima e questo processo deve essere pensato nella fase di progettazione. Il percorso verso il riciclo è iniziato negli anni ’90 e possiamo affermare che oggi siamo arrivati a utilizzare il 90% di materiale riciclato. Ma questo non basta. Il nostro obiettivo non è solo raggiungere la piena economia circolare, ma dobbiamo fare cultura per portare nuovi valori al consumatore. Dobbiamo essere capaci di raccontare la storia del prodotto, dall’utilizzo di materie prime riciclate al difficile processo produttivo, fino a far comprendere l’importanza della sua durabilità con la possibilità di essere riparato e non gettato come rifiuto”.

Stiamo vivendo un periodo storico dal punto di vista delle opportunità, oggi ci sono delle regole ben precise che ci impongono di cambiare il modo di produrre. Durante la mia carriera lavorativa sono venuta a stretto contatto molti player che producevano filati o capi di moda con un eccesso di spreco – afferma Silvia Stella Osella, consulente creativa che dal 2009 guida il brand -. Piccole imperfezioni durante il processo produttivo, ad esempio un’imperfezione della trama della stoffa, era sufficiente per decidere di buttare al macero o letteralmente bruciare chilometri di stoffa. Ed è veramente sconsolante vedere che intorno a te non c’è nessuna volontà, da parte di ogni attore della lunga filiera coinvolto nella produzione di un capo, di percorrere la strada della sostenibilità. Dobbiamo arrivare al 2014 per cominciare a vedere produttori che pensavano alla sostenibilità ambientale. I primi passi si sono fatti sulla riduzione dell’inquinamento delle falde acquifere e nel rispetto dei diritti e delle condizioni di lavoro della manodopera impiegata. Prima non esisteva nessuna forma di collaborazione fra i vari soggetti della filiera, tutto era segreto, mentre da qualche anno si comincia a mettere in rete la conoscenza, a condividere le tecniche e i processi produttivi. Questo processo di condivisione sta subendo un’accelerazione grazie alle start-up che oggi lavorano su piattaforme open-source, dove si mette in rete le conoscenze nella ricerca, il design, e l’industria. Adesso il mercato della moda etica a basso impatto è variegato ed è molto più accessibile alle persone. Finalmente dopo tanti anni se ne parla”. 

Matteo  Aghemo è co-founder di Must Had, insieme a Arianna Luparia, Eugenio Riganti. Nata 3 anni fa, Must Had è una startup di abbigliamento upcycled, è una vetrina per i designer che creano capi rigenerati, un marketplace online che riunisce stilisti e brand artigianali che vendono prodotti generati partendo da scarti tessili o provenienti da altre industrie.  L’idea alla base del progetto è semplice: riutilizzare ciò che già esiste e allungare la vita dei vestiti significa anche allungare la vita del pianeta. Everything deserves a second chance, tutto si merita una seconda opportunità, è il motto. “Must Had è un gioco di parole, per imparare a guardare quello che c’è già – spiega Aghemo -. Must have è un prodotto che dobbiamo assolutamente avere, il cui bisogno è spesso creato ad arte dal marketing. Mentre, coniugando il verbo al passato, must had, si vuole sottolineare che non è necessario produrre un capo nuovo perchè sicuramente c’è già, è possibile utilizzare risorse che sono già disponibili e che spesso chiamiamo scarto.
Offriamo supporto alle aziende per gestire in modo circolare lo scarto di produzione, l’eccesso di magazzino, l’invenduto, i capi difettati, andiamo a identificare gli scarti così da poter dare una seconda vita al prodotto. Per fare questo abbiamo creato una community, un contenitore digitale del lavoro manuale degli artigiani, che allunga la vita al prodotto inserendolo nel circuito di vendita in un nuovo modo”.

A che punto siamo verso una moda completamente sostenibile? Che percentuale daresti al completamento del processo sostenibile?

C’è chi nasce come brand circolare, c’è chi ci pensa dagli anni ’70 e c’è chi ha iniziato 5 anni fa. Bisogna creare maggiori collaborazioni, fare sistema per creare nuovi processi produttivi. Bisogna ricreare la filiera, da quando inizi a pensare e a disegnare il capo a quando arriva il fine vita. In mezzo c’è un mondo di fornitori che devono essere tutti coinvolti. Inoltre, il riciclo di fibre miste diventa difficile, e qui ci devono aiutare le nuove tecnologie e l’industria chimica.
Al 2030 manca pochissimo, siamo al 50% e la strada è molto lunga. Nel 2021, dopo il rallentamento dovuto al Covid, abbiamo ripreso la produzione tessile con un nuovo record di 113 milioni di tonnellate, sembra quasi che la fast fashion stia diventando ultra fast fashion. Purtroppo i colossi del fashion sono molto indietro, non stanno rivoluzionando il loro modello di business.
In questo nuovo modello è importante la consapevolezza del consumatore. Dobbiamo imparare a raccontare la storia del prodotto, per fare comprendere il suo vero valore. C’è un percepito sbagliato sul valore economico dei capi che indossiamo, ad esempio, molti sono disposti a spendere 20 euro per una bottiglia di vino da consumare in una sera, ma non per una t-shirt che ti dura per 15 anni. Purtroppo la moda etica e sostenibile oggi costa di più, dobbiamo aumentare la produzione per contenere i prezzi. Per ultimo, ma fondamentale per la circolarità, il prodotto riciclato al termine della sua vita deve essere rispedito al produttore, e qui bisogna fare un’azione importante di comunicazione per educare il consumatore.

Stefano Rovelli

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LE TOP MODEL CHE HANNO RIVOLUZIONATO LA MODA

LE TOP MODEL CHE HANNO RIVOLUZIONATO LA MODA

Naomi Campbell, Cindy Crawford, Linda Evangelista e Christy Turlington sono tra le top model più famose del mondo che hanno segnato la storia della moda provocando anche un forte impatto sulla cultura di massa, prima dei social, prima delle influencer, prima di una società in cui la celebrità è così diffusa e virtuale. Oggi le loro carriere vengono raccontate con un documentario suddiviso in quattro parti e disponibile dal 20 settembre in streaming su Apple TV+.

Il progetto “The Super Models” realizzato da Imagine Documentaries e One Story Up e diretto dal premio Oscar Roger Ross Williams e da Larissa Bills pone lo sguardo sulla vita di queste professioniste, porta gli spettatori dietro la macchina da presa e nel dietro le quinte delle sfilate, svelando come le supermodelle hanno dominato le passerelle e fa luce sulle dinamiche che hanno cambiato la moda. Il documentario riporta gli spettatori agli anni ’80, quando quattro donne provenienti da diverse parti del mondo si ritrovano a New York. Popolarissime singolarmente, raggiungono insieme un potere mediatico che va oltre il settore fashion. Il loro prestigio superava la fama dei marchi che rappresentavano, e i nomi di Naomi, Cindy, Linda e Christy diventano importanti tanto quanto gli stilisti che le vestivano.

Negli anni ’80 e ’90, però, anche Iman, Claudia Schiffer, Helena Christensen, Carla Bruni, Eva Herzigová, Nadège, Jerry Hall, Farida Khelfa, Inès de La Fressange, Elle Macpherson, Carol Alt, Kate Moss conquistano le passerelle e nell’immaginario collettivo creano il canone di bellezza dell’epoca: la donna irraggiungibile, perfetta, dal fisico statuario. Ma non sono solo belle, le top model non indossano semplicemente degli abiti, ma li interpretano con il loro carisma, con la loro identità ed espressione.

Alcune modelle hanno rivoluzionato il mondo della moda a colpi di copertine sulle riviste più prestigiose (Vogue, Elle, Harper’s Bazaar), sfilate spettacolari e contratti milionari. Gli stilisti, infatti, facevano a gara per averle in passerella, offrendo loro dei compensi stratosferici. Per questo fatto è diventata famosa la frase di Linda Evangelista: “Non mi alzo dal letto per meno di 10 mila dollari al giorno”.

Le top model hanno ridefinito il concetto di stile, di bellezza e creato un’era indimenticabile. Con il loro talento e coraggio hanno lasciato un’eredità duratura che continua a influenzare l’industria della moda di oggi e le future modelle di domani.

Simone Lucci

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