DISTILLERIA BERTA: ALLA RICERCA DELL’ASSENZIO PERDUTO

DISTILLERIA BERTA: ALLA RICERCA DELL’ASSENZIO PERDUTO

Pensi all’assenzio, e ti risuonano in testa i versi di Oscar Wilde: “L’assenzio, come una poesia, favorisce l’amore”, o rivedi l’attrice con lo sguardo malinconico rivolto verso il bicchiere d’assenzio nel celebre quadro di Degas, e ancora immagini i maudits, i poeti maledetti, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine che scrivono versi perdendosi nel verde intenso della “Fata verde” o del “pericolo verde”.

Sì perché così era chiamato l’assenzio. Distillato dal colore verde intenso considerato quasi una droga nella seconda metà dell’ottocento, quando era talmente diffuso da far chiamare “ora verde”, le diciassette, ora dell’aperitivo, quando i maudits si incontravano al Cafè Academie a Parigi per perdersi nei suoi fumi e cercare l’agognata ispirazione.

L’assenzio, estratto dall’Artemisia absinthium, un arbusto comune nelle zone alpine, caratterizzato da un color verde argentato e da un sapore estremamente amaro, è conosciuto per le sue proprietà toniche, eupeptiche, emmenagoghe e antisettiche.

La leggenda narra di un elisir segreto a base di assenzio e di una fata che che realizzava le sue magie utilizzando un cucchiaio traforato, un pezzo di zucchero e una fontana d’acqua fredda. Miscelata la pozione, il distillato si intorpidiva, apparivano cerchi, le onde iniziavano a risalire, si formavano turbini, mulinelli ed ecco che lo spirito ribelle e visionario della Fata verde sembrava uscire dall’acqua per prendere vita.

Lo spirito incantatore passò dagli alambicchi ai granai, dalle osterie di campagna ai caffè della Ville Lumière seducendo tutti. I poeti diventavano maledetti, gli artisti visionari e la Fata verde venne tacciata di essere una strega. 

Cominciò una vera persecuzione, ma la Fata riuscì sempre a scappare, a rifugiarsi dai suoi fedeli nelle distillerie clandestine.

Così passavano gli anni e la si vedeva uscire la sera dalle cantine segrete, o all’alba vicino a una locanda isolata o lungo i sentieri del bosco.

Per molti anni l’assenzio fu demonizzato, messo al bando e cadde nell’oblio. Oggi, però, al Castello di Monteu Roero, la “Fata verde” ritorna grazie alla passione per l’artemisia e per i distillati della famiglia Berta, che coltiva le piante officinali nel parco naturalistico intorno alla distilleria di Mombaruzzo. Nasce così in questo castello Favola Mia, un distillato profumato tra le cui note spiccano l’artemisia, l’anice stellato, la menta e il coriandolo. È l’assenzio creato dalle distillerie Berta nel rispetto della tradizione ma con un piglio moderno grazie al suo utilizzo nella mixology.

Oltre a Favola Mia, la famiglia Berti produce Il 28 di via San Nicolao, Di Mombaruzzo, Di Anisè, Di Rose e Di Nero, distillati che racchiudono profumi e aromi particolari e sprigionano sentori di mandorla, di caffè, di anice stellato, e di rosa, con un legame strettissimo col terroir in cui si trova la tenuta.

Francesca Salvago

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I VINI SICILIANI NATI IN UNA CITTÀ  ARABO-NORMANNA

I VINI SICILIANI NATI IN UNA CITTÀ  ARABO-NORMANNA

Al centro della Sicilia occidentale si erge la città arabo-normanna di Salemi. Dal terrazzo merlato del castello è possibile godere di un panorama incantato valorizzato da distese di uliveti e vigneti. In questa zona dove il sole tramonta alle spalle delle isole Egadi, nasce la storia della famiglia Ardagna che ha portato a nuova vita Musìta, una vecchia cantina degli anni ’70 e che trae il suo nome dall’omonimo colle su cui vengono coltivati alcuni vigneti.

La passione vitivinicola di Don Ignazio, infatti, è stata tramandata di padre in figlio per cinque generazioni. Un’attività iniziata con pochi ceppi di Catarratto impiantati ad alberello, gestiti con infinito amore e tanta fatica, sino all’acquisizione di circa 50 ettari di vigneto coltivati con nuove tecniche attente all’ambiente, ma con l’entusiasmo del passato.

A un’altitudine che arriva fino a 500 mt. s.l.m., vengono allevati: il Catarratto, il Grillo, lo Chardonnay, il Cabernet Sauvignon, il Syrah e il Nero d’Avola. “Preferiamo i vigneti sulle colline di Salemi posti esattamente nelle vicinanze della cantina e della zona collinare che si espande attorno al sito archeologico di Segesta – precisa l’enologa Carmela Ardagna –. Compriamo, anche, uve da altri fornitori con cui abbiamo contratti pluriennali. Tali vigneti vengono controllati dalla potatura alla vendemmia e seguono il nostro protocollo”.

La raccolta di queste uve viene interamente svolta a mano e i grappoli vengono posti in piccole cassette da 15kg. “In tal modo, il frutto giunge integro in cantina dove una diraspatrice toglie il raspo senza schiacciare gli acini che vengono, successivamente, trasportati all’interno di vasche per mezzo di una pompa peristaltica. Uno strumento nato per il mondo medico e poi adattato al settore enologico”, spiega Carmela Ardagna.

La gestione della cantina e dei vigneti è completamente familiare, e ogni processo di lavorazione viene seguito da esperti agronomi ed enologi che mirano a valorizzare i vini e la terra siciliana. “In futuro, mi piacerebbe vedere la Sicilia come un’isola bio”, riferisce Dino Taschetta, presidente della cooperativa di Mazara Colomba Bianca e marito di una delle proprietarie della cantina Musìta.

All’azienda, infatti, sono state riconosciute: la certificazione biologica e il programma NOP (National Organic Program) per l’esportazione di vino biologico negli Stati Uniti. “I prodotti bio non sono ancora in commercio, ma stiamo lavorando a una linea di vini biologici in purezza con un focus sulle varietà autoctone: Grillo, Catarratto e Nero d’Avola – puntualizza Vito Amato, responsabile marketing e nipote dei proprietari –. Per il mercato americano, stiamo realizzando uno Zibibbo secco certificato NOP”.

Uno dei vini di punta della cantina Musìta è il: Passocalcara metodo classico, presentato per la prima volta con la guida del Giornale di Sicilia, aggiudicandosi nel 2015 il premio come Miglior Spumante della Sicilia.

Tutti i vini Musìta sono prodotti in un’azienda attenta all’ambiente e all’ecosostenibilità. “Abbiamo installato dei pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua, abbattendo, così, i consumi – precisa Vito Amato –. E in futuro realizzeremo un impianto fotovoltaico per l’energia elettrica. Nel frattempo abbiamo un contratto con un fornitore di energia elettrica che ci garantisce energia prodotta da fonti rinnovabili, con una particolare sensibilità all’ambiente”.

In Musìta si fondono tradizione e tecnologia, storia e innovazione, dedizione e sapienza, sogno e realtà per creare vini dall’inconfondibile sapore siciliano.

Simone Lucci

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LA STORIA DELLA PRIMA BIRRA ARTIGIANALE MADE IN ITALY RACCONTATA DA UN SOMMELIER

LA STORIA DELLA PRIMA BIRRA ARTIGIANALE MADE IN ITALY RACCONTATA DA UN SOMMELIER

La birra ha una storia millenaria ed è la bevanda più antica e diffusa al mondo. In Mesopotamia veniva utilizzata nella quotidianità, i greci e i romani la consideravano un prodotto popolare, mentre nel codice di Hammurabi era stabilito quanta birra donare ai lavoratori come premio.

La birra ha un sapore amarognolo e frizzante, un basso tenore alcolico e un colore che spazia dal biondo chiaro al rosso scurissimo. Si ottiene dalla fermentazione del malto d’orzo o di altri cereali come il riso, il grano, il mais, ed è aromatizzata con il luppolo. I primi mastri birrai professionisti erano donne, una tendenza che nel corso degli anni si è persa, ma che attualmente sta crescendo, così come la produzione di birre artigianali.

A Piozzo, un paesino di 900 abitanti vicino a Cuneo – racconta Paolo Di Caro, Presidente di Fondazione Italiana Sommelier Sicilia -, sorgeva un ristorante gestito da Matterino (Teo) Musso e dalla sua prima moglie, la francese Michelle, con la quale inizia una serie di percorsi legati al mondo della gastronomia che rendono il piccolo locale un punto di riferimento”.

La svolta imprenditoriale avviene quando Musso conosce Nora, una ballerina di danza classica, una monegasca con fortissime influenze arabe, che lo coinvolge in viaggi in Europa alla scoperta del mondo della birra. “Nel 1984, in una birreria a Mons, in Belgio, Teo Musso assaggiò per la prima volta una Chimay tappo blu, e da quel momento capì che la birra sarebbe diventata la sua professione – riferisce Di Caro –. Apprese le nozioni essenziali, e trasportò poi sulla sua automobile, unaVolkswagen malridotta, i primi fusti per iniziare la produzione della bevanda nella sua osteria nelle Langhe”.

Nel 1986 nasce Baladin (cantastorie, in francese antico), la birra artigianale, che fino a quel momento non esisteva in Italia.

Durante la produzione, Musso elimina i processi di pastorizzazione e filtrazione, applicati per la realizzazione della birra industriale. La bevanda risulta poco limpida e brillante, inoltre, non dura in eterno ma possiede una data di scadenza. “La birra è fermentata in fusto, e la rifermentazione avviene in bottiglia come con lo Champagne e lo spumante senza la sboccatura (metodo ancestrale)– precisa il presidente di Fondazione Italiana Sommelier Sicilia –. I lieviti donano alla bevanda un aroma di crosta di pane molto intenso al naso e al palato”.

Il legame di Teo Musso con il territorio e con il suo paese è molto forte e lui cerca di trasferirlo a tutte le sue produzioni utilizzando materie prime italiane. Convinto che “Birra è Terra”, ha convertito il birrificio in un’azienda agricola per coltivare i cereali che impiega. Il successo delle bibite artigianali ha trasformato così Baladin in un’industria che ha birrerie anche in America.

Il cambiamento produttivo ha spinto il brand a intraprendere un percorso per essere completamente autonomo nella produzione del fabbisogno energetico. L’attuale stabilimento utilizza pannelli solari che, in condizioni ottimali, coprono circa l’80% del fabbisogno totale, mentre la restante parte di energia viene acquistata da fornitori di energia rinnovabile al 100%. Le acque esauste di lavorazione, invece, vengono depurate e reintrodotte nell’ambiente naturale. Nell’azienda è inoltre attivo un processo di recupero del calore che viene sfruttato nella cella di rifermentazione della birra per evitare l’impiego di combustibili.

Musso è stato il primo a inserire in lattina la birra artigianale e lo fa con un’operazione di marketing straordinaria: sei lattine da collezione con colori diversi ispirate alla Pop Art.

Birre puro malto, luppolate e speciali sono alcune linee offerte dallo storico brand piemontese, mentre Isaac, Wayan e Nora sono i nomi delle tre birre speziate artigianali, che traggono ispirazione dai due figli e dalla seconda compagna di Teo Musso.

Isaac è una Blanche realizzata con una doppia fermentazione: prima in fusto e poi nuovamente all’interno della bottiglia, chiaramente senza sboccatura. Dal colore volutamente torbido, possiede un leggero gusto di albicocca e un profumo di lievito e di agrumi che vanno a perdersi in armonie speziate di coriandolo e arance del Gargano sbucciate. Fresca al palato, ha corpo leggero ed è molto beverina. Un sapore lontanissimo da quello delle birre industriali.

Wayan è una Saison con una gradazione un po’ più alta rispetto alle birre tradizionali, nate in Vallonia per dissetare i contadini in estate. Molto fresca, con una gradazione di 5,8, è creata con 5 cereali (orzo, farro, frumento, segale e grano saraceno) e 9 spezie, tra cui 5 tipi di pepe. Al palato, evoca ricordi di campagne e agrumeti assolati, con profumi in cui si sposano sentori di fiori di zagara, pera e bergamotto. Wayan è perfetta con le ostriche e con le preparazioni di pesce.

Nora, invece, trae ispirazione dall’antica storia di: nomadi, piramidi, spezie e grano khorasan KAMUT® da agricoltura biologica, che nella lingua egizia significava “anima della terra”. Il suo colore caldo è sovrastato da una schiuma che sprigiona note orientali di zenzero e agrumi. Una bibita consigliata con il Cous Cous e con i piatti speziati.

Musso è considerato il rappresentante più significativo di un nuovo modo di intendere la birra: rigorosamente artigianale, viva e preferibilmente da abbinare al cibo. Nel 2013, nasce Baladin Milano proprio con la missione di far conoscere la birra artigianale abbinata a un menù concentrato principalmente sull’offerta di hamburger gourmet.

Teo Musso, maestro della fermentazione, e Renato Bosco, artista della lievitazione, danno vita da Baladin Milano a un progetto comune di ricerca, un laboratorio di idee golose che seguono la filosofia del volersi raccontare attraverso bibite e cibi con l’obiettivo di emozionare. Il primo con le sue birre, e il secondo con i lievitati e la scelta delle farciture che rendono speciali i panini, le focacce e i toast.

Simone Lucci

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IL VINO DELL’ETNA DEI CONIUGI GIAPPONESI

IL VINO DELL’ETNA DEI CONIUGI GIAPPONESI

Junko Nishikawa e suo marito Shigeaki Nishikawa approdano a Catania per motivi di lavoro e ci vivono dal 2010: lui ingegnere di un’importante azienda del fotovoltaico, lei addetta amministrativa ma con un passato di studi in giornalismo. Iniziano ad amare la città vulcanica. “Rimarremo a vivere qui, i catanesi hanno un grande cuore che invece a Tokyo, città di grande ordine e pulizia, crediamo manchi. Per noi invece l’aspetto umano e amichevole è molto importante”, commenta la signora Nishikawa.

Nel 2013 la coppia del Sol Levante acquista un vigneto di un ettaro, già vecchio di 60 anni, a Passo Pisciaro, località di Castiglione di Sicilia (versante Nord Etna, località Bonanno), dando vita alla società “Terra delle ginestre”. Ed è così che nasce il primo vino siciliano prodotto da giapponesi: è un Nerello mascalese 2014, Etna Rosso doc. Si chiama Jun, che in giapponese significa “Pura”, ma che è soprattutto il diminutivo di Junko. Per il 100% Nerello mascalese: vinificazione tradizionale in rosso, affinamento dodici mesi in barrique francesi, dodici mesi in acciaio e almeno otto mesi in bottiglia, gradazione alcolica 14 per cento, processo di coltivazione e trasformazione senza prodotti chimici di sintesi.

L’etichetta? Di matrice siculo-giapponese, riporta i colori della terra e della Ginestra, il fiore primaverile che nasce ai piedi del vulcano ed è capace di fare radici tra la “sciara”.

IL PUNTO DI VISTA DI LUCA GARDINI

Shigeaki viveva in Giappone e ha girato il mondo per lavoro, dalla Spagna alla Turchia, dagli Usa all’India. Di ogni Paese voleva conoscere le tipologie di uva e di vino. Diversi anni fa è arrivato in Sicilia e ha visitato diverse aziende. Era curioso di conoscere i vini rossi prodotti con i vitigni di Nero d’Avola e di Nerello Mascalese. Non gli piaceva il Nero d’Avola, preferiva il Nerello Mascalese perché è molto elegante.

Junko Nishikawa e suo marito Shigeaki Nishikawa da anni avevano il sogno di produrre vino e la Sicilia ha dato loro questa opportunità con un terreno sull’Etna che ha delle peculiarità specifiche. Per l’Etna infatti non parlerei di pregi o difetti, ma di caratteristiche.

L’Etna oggi deve tirare fuori i suoi punti di forza. È un terreno vulcanico unico per la forte carica di sale avvertibile sia al naso che al gusto. Jun, il primo vino di Terre delle Ginestre è del 2014, mi piace molto quest’annata anche se è molto difficile: un vino di grande pulizia con sentori di pesca e sale. Note saline, vulcaniche e marine. La grande forza dell’Etna è la sapidità che si avverte sia al naso che in bocca, caratteristica che manca alla Borgogna. Jun ha un’alternanza di dolce e acido con in mezzo questo salato con sentori di agrumi, si avverte il pompelmo.

Se dovessi dare un punteggio a questo vino?

Secondo me questo vino, per il periodo e l’annata, con un margine di miglioramento, merita 90 punti. Un punteggio corretto per un’annata difficile.

Che abbinamento proporresti?

Un brodetto di pesce. E lo vedrei bene con il castrato, cioè l’agnello, fatto marinare e cucinato poi sulla griglia con rosmarino, aglio, scalogno e sale.

Il vino è fatto di fasi come la vita, non esiste l’abbinamento perfetto perché ognuno ha il suo palato. Esiste però l’abbinamento ideale, per ognuno, nei diversi momenti.

Quando un vino è così giovane, acido, fresco, sapido, profumato e easy, poi, è sempre beverino.

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DUE FRANCIACORTA INNOVATIVI NATI DALL’IDEA DELL’ENOLOGO MARIO FALCETTI

DUE FRANCIACORTA INNOVATIVI NATI DALL’IDEA DELL’ENOLOGO MARIO FALCETTI

A seguito delle glaciazioni nella fascia prealpina, in un’area dolcemente collinare lambita da un clima mite, si è formata la verdeggiante e rigogliosa Franciacorta. In questo territorio a sud dell’azzurro lago d’Iseo, nasce Brut Green Vegan, il primo Franciacorta certificato secondo la filosofia e i criteri della qualità Vegana ideato da Mario Falcetti che dal 2008 dirige Quadra, azienda di proprietà della famiglia Ghezzi.

Vestito con una provocatoria etichetta verde, Brut Green Vegan non è esclusivamente un vino, bensì una visione, un modo di produrre, un’attenzione all’ambiente, l’unione tra tradizione e innovazione. “Il Vegan di Quadra è un vino, un’etichetta, un concetto rivoluzionario, almeno nell’attuale ambiente enologico, che a pochi mesi dal suo lancio occupava già il 7% delle nostre vendite – riferisce Mario Falcetti, direttore della cantina –. Vegan rappresenta una maschera, un personaggio in cerca d’autore in cui ciascun individuo vede quello che vuol vedere. Un vino innovativo che solitamente è classificato di moda oppure estremista. In realtà, le motivazioni alla base di Green Vegan sono più profonde, articolate e complesse di quanto appare a prima vista”.

Il Franciacorta vegano è la naturale evoluzione e concretizzazione di un pensiero di Falcetti che ha adottato un percorso enologico a basso impatto ambientale e che rispetta i tempi della natura. “Non ho mai utilizzato chiarificanti, in particolare quelli di derivazione animale come albumina, gelatina, caseina, colla di pesce che hanno la capacità di fissare le proteine disperse nel vino, renderle più pesanti in termini di massa, e separale dal vino. Si parla di chiarifica perché si sottraggono le parti sospese all’interno della bevanda, migliorando il colore del vino – precisa l’enologo –. Il metodo vegano rende i nostri Franciacorta immediati, di notevole piacevolezza ed eleganza, ma soprattutto adatti ai palati più esigenti, anche in termini di sensibilità a determinati allergeni”.

Lavorare secondo tali principi e raccontarlo nella massima trasparenza ai clienti, ha suggerito all’azienda la possibilità di certificare il prodotto.

Il mercato domestico è quello che noi gestiamo in maniera prioritaria – racconta l’enologo –. Quando affermavo che i vini sono privi di chiarificanti, sempre più acquirenti mi chiedevano una certificazione, così, mi sono rivolto al CSQA che mi ha consigliato di scrivere un disciplinare interno, certificato insieme al prodotto, dove anziché certificare delle negatività, attesto un concetto in positivo. Nasce, così, l’idea del vegano”.

Sempre a Falcetti si deve una lunga battaglia per la valorizzazione della tipologia Satèn, accompagnato da scelte comunicative audaci come il Gioco delle Cuvèe che ogni anno chiama esperti e critici a creare il proprio vino. “Satèn è un vino che rappresenta l’amore, un sentimento forte, costantemente alimentato, che travolge tutto, ma che possiede un equilibrio tra la fase razionale e irrazionale – riferisce l’enologo –. Sono stato il primo a credere in questa tipologia, prodotta esclusivamente in Franciacorta, all’interno di botti acciaio, e rappresenta l’unione tra: finezza, eleganza e bevibilità”.

Dalla sua ricerca e sperimentazione è nato anche EretiQ, l’unico Franciacorta a non utilizzare nell’uvaggio lo Chardonnay, scegliendo invece il blend di Pinot Nero e Pinot Bianco. “EretiQ nasce dalla volontà di esaltare due vitigni delicati ed eleganti, ma difficili da far esprimere: il Pinot Bianco e il Pinot Nero – precisa il direttore della cantina –. Ciò è possibile perché Quadra è una tavolozza su cui posso lavorare senza condizionamenti, con creatività, e dove esprimere la mia esperienza trentennale”.

L’esperienza lavorativa di Mario Falcetti inizia con il ruolo di massimo esperto di zonazione presso l’Istituto di San Michele all’Adige e l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV). Successivamente, Falcetti si dedica alla vita aziendale, prima alla direzione di Contadi Castaldi fino al 2008, e poi direttore di Quadra dove l’enologo è riuscito a conciliare i due importanti elementi: la ricerca e la direzione d’impresa.

Sono arrivato a Quadra per conciliare il mondo della sperimentazione e della ricerca a quello imprenditoriale – spiega Mario Falcetti –. Con Quadra ho trovato nella famiglia Ghezzi un partner ideale, che ha permesso di esprimere questo concetto”.

Grazie a un approccio romantico non finalizzato esclusivamente al business, l’azienda ha sviluppato molti progetti con l’obiettivo di riportare al centro il vino, e la sua essenza come espressione di un terroir, donando alla bevanda un’identità più autentica. In un vino, infatti, non deve mai mancare un progetto. “Un vino senza un’idea non è altro che una bevanda – riferisce Falcetti –. Credo che un vino debba regalare un’emozione a chi lo beve. Ogni primavera mi propongo di modellare una nuova materia, ma lo spirito segue l’istinto come ha scritto sapientemente Patrick Sünskind nel romanzo Il Profumo, dove il protagonista afferma… formula, formula… non ho nessuna formula. Ho la ricetta nel naso”.

Il vino deve essere progettato pensando al futuro, infatti, il pensiero di Mario Falcetti è già proiettato al domani, per dar vita ogni anno un figlio, così ama definire i suoi vini, unico per blend, un’idea a termine, sviluppabile solo in quell’annata, perché come dichiara lo stesso enologo: “Ogni vino ha la sua genesi, la sua storia, un posto nella mia testa e nel mio cuore. Ognuno rappresenta un tratto del mio tragitto”.

Simone Lucci

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LUCA GARDINI E LE STRAVAGANZE SUL BRUNELLO

LUCA GARDINI E LE STRAVAGANZE SUL BRUNELLO

La cantina è Ciacci Piccolomini d’Aragona.

Rosso di Montalcino 2014, Rosso di Montalcino Rossofonte 2014, Brunello di Montalcino 2011, Brunello Vigna di Pianrosso Riserva S. Caterina d’oro 2010, Brunello di Montalcino Vigna di Pianrosso 1999: questi i vini in degustazione al ristorante Vun del Park Hyatt Milano.

Lui è Luca Gardini, si definisce “romagnolo verace” ed è il mattatore della serata e l’eclettico comunicatore dell’anima dei vini. Miglior Sommelier d’Italia nel 2004, Miglior sommelier d’Europa nel 2009 e Ambasciatore del metodo classico italiano in qualità di vincitore del premio Ferrari nel marzo del 2009.

Aveva ventinove anni ed era sommelier presso il Ristorante Cracco di Milano quando si è aggiudicato, al teatro Bella Artes di Santo Domingo, il titolo di “Miglior sommelier del Mondo 2010”, premio assegnato nel corso della serata finale del concorso promosso dalla WSA (Worldwide Sommelier Association).

Luca Gardini è stato iniziato ai segreti del vino dal padre Roberto (anche lui insignito del titolo Miglior Sommelier d’Italia, nell’edizione del 1993).

Luca Gardini non parla mai male dei vini, se non gli piacciono, piuttosto sta zitto. “Dietro a una bottiglia c’è lavoro, fatica, tanto investimento. Preferisco andare dal produttore e dirglielo di persona, aiutarlo a migliorare.

Ho grande memoria olfattiva. E istinto: un vino lo capisci nei primi 30 secondi, quelli che ci stanno a pensare tre ore brancolano. Poi ci vuole fortuna. Riconoscere alla cieca è la mia specialità, e la sfida mi piace. Quindi sono molto forte, anche se qualche volta sbaglio”.

Cosa mi dici in 30 secondi del Brunello?

Esemplare unico, coinvolge. Un po’ come una donna, vedi subito se è fatta per te. La chimica, la reazione. Quando assaggio il Brunello di Ciacci è amore a prima vista, pulizia, estremo rigore, estrema finezza, estrema territorialità. È come quando vedi una bella donna per la prima volta e dici: questa donna mi stimola, mi emoziona! Così come il Brunello che ti invoglia, che crea il desiderio, ti spinge ad andare su quel bicchiere. Questo è importante nel mondo del vino: la voglia di versarlo, berlo e interpretarlo.

Se il vino fosse donna, il Brunello che donna sarebbe?

Sarebbe quella donna che devono ancora inventare.

Chi produce il Brunello lo considera un’opera d’arte, come lo considera Luca Gardini? E se fosse un’opera d’arte, per te quale opera d’arte sarebbe?

L’arte è soggettiva. C’è a chi predilige uno stile, chi un altro. Il Brunello ha un grande stile, è un’opera d’arte unica e immensa, come La Gioconda.

Hai detto: “Io ho inventato abbinamenti tra cibi e sakè, tè, cocktail di frutta. Ma i pregiudizi e le fissazioni son cazzate: non ci sono vini che non stanno bene col carciofo o col cioccolato? Un’eresia. E il vino rosso col pesce è una gran cosa: provi delle ostriche crude col Pinot nero a 10-12 gradi”. Quale abbinamento, invece, stravagante consigli con il Brunello?

L’abbinamento perfetto non c’è. Il migliore bisogna crearlo, per esempio con una bella donna, il mare, il tramonto, due ostriche crude un Pinot nero o un Brunello di questa tipologia e con un corpo di grande eleganza. Per un abbinamento stravagante vedo il Brunello con un brodetto di pesce, una zuppa di pesce gustata con i piedi nel mare. Io mi emoziono con un grande Brunello e una grande zuppa di pesce. Sono originale come il Brunello! Ognuno poi ha il suo gusto personale, ognuno ha il suo palato e va rispettato, ognuno ha il suo prototipo di abbinamento.

E la temperatura del vino? Il Pinot nero lo consigliavi a 10/12 gradi, il Brunello?

Il Brunello a 15°.

Cos’è cambiato per te dopo aver vinto il Campionato del Mondo dei Sommelier?

Niente. Ho capito che le associazioni non contano niente.

Oggi di cosa ti occupi?

Dei miei 3 figli prima di tutto, delle mie amicizie, degli amici che hanno creduto in me sempre.

Quali sono i principi che guidano il tuo lavoro?

Apprezzo la gente che ama il vino per quello che è: la cosa più bella del mondo. Ognuno ha il proprio palato e va rispettato, quindi io cerco di non regolarmi solo su me stesso ma di considerare i gusti degli altri. Nel giudicare ci vuole rispetto anche perché dietro a un bicchiere di vino ci sono persone che vi si sono dedicate con sacrificio, amore e passione. Sono contro chi fa il “fenomeno”, il “professore”, perché uno deve bere quello che gli va di bere e quello che può bere.

Clementina Speranza

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